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L'emigrazione italiana in Svizzera nel Secondo dopoguerra

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L’emigrazione italiana può essere divisa, per quanto riguarda il XIX e il XX secolo, in due fasi. La prima va dal 1888, anno della prima legge italiana sull’emigrazione, alla fine degli anni ’20. È chiamata “grande emigrazione”, ed è diretta soprattutto verso l’America. La seconda riprende dopo la Seconda guerra mondiale, e prosegue fino alla metà degli anni ’70 (il 1974 è infatti l’anno della crisi petrolifera, che provoca un periodo di recessione economica e dunque parecchi licenziamenti). In questa seconda fase le persone si dirigono soprattutto dal Sud al Nord Italia, e in Europa.

Noi ci occuperemo di questa seconda ondata emigratoria, nel corso della quale, secondo le stime, più di tre milioni di persone lasciarono l’Italia.

Moltissimi italiani scelsero la Svizzera quale meta d’emigrazione. Il sistema produttivo della Confederazione, uscito praticamente indenne dalla guerra, era soggetto a una forte domanda, anche internazionale, e di conseguenza a un aumento del bisogno di manodopera. Gli imprenditori svizzeri decisero così di rivolgersi ai lavoratori stranieri a basso costo, provenienti soprattutto dalla vicina Italia.

Dalla fine della guerra agli anni ’60 a emigrare in Svizzera furono soprattutto abitanti del Nord Italia, perché geograficamente più vicini e poiché gli imprenditori li preferivano ai lavoratori del Sud, poi invece, dal 1963 agli anni Settanta a spostarsi furono soprattutto i meridionali.

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Gli anni Sessanta sono per l’Italia il momento del cosiddetto boom, o miracolo economico. Si tratta di un periodo di grandi mutamenti e di grande sviluppo che investe dapprima il settore economico, per poi diffondersi agli altri ambiti della vita degli italiani. Le trasformazioni economiche in atto in quegli anni avevano provocato un notevole aumento degli impieghi, della produzione di beni privati e, di conseguenza, del benessere. L’aumento del tenore di vita degli italiani ebbe come conseguenza la nascita di bisogni nuovi e diede alla luce quella che viene comunemente chiamata società dei consumi di massa.

Ma il boom economico aveva portato con sé anche un’altra importante conseguenza: fortissimi squilibri sociali, in particolare tra il Nord e il Sud della Penisola. Lo sviluppo economico aveva infatti toccato praticamente solo il Settentrione, e in particolare quella zona chiamata “triangolo industriale”, compresa tra Genova, Milano e Torino. Era lì che si concentravano lo sviluppo e la maggior parte dell’offerta di posti di lavoro, e di conseguenza quasi tutto il benessere: le campagne del Sud restavano arretrate e poverissime. I meridionali cominciarono dunque a spostarsi in massa verso il triangolo industriale, ma anche verso altre nazioni europee, soprattutto la Francia, la Germania e la Svizzera.

Inoltre, l’emigrazione era voluta e favorita dal governo italiano, perché vista come modo per allentare le tensioni sociali nel paese. A questo proposito, Amintore Fanfani, capo del governo, dichiarava che le partenze erano “una valvola di sfogo per il surplus della popolazione italiana”[1].

Il  governo elvetico aveva cercato fin da subito di controllare l’emigrazione limitandola ai lavoratori cosiddetti stagionali, ovvero a coloro che avrebbero fatto immediato ritorno in Italia allo scadere del contratto di lavoro, per poi tornare nella Confederazione al momento in cui ci sarebbe di nuovo stata necessità di manodopera non qualificata. Il primo accordo con l’Italia a questo proposito risale al 1948. Esso è volto a sottolineare questo processo di rotazione dei lavoratori. La categoria degli stagionali, strettamente funzionale agli sbalzi dell’economia, aveva però uno statuto poco favorevole: non poteva spostarsi all’interno del territorio svizzero, ne cambiare lavoro, ma era vincolata a chi l’aveva assunta, che poteva licenziarla in qualsiasi momento (con sole 24 ore di preavviso). A questi lavoratori, non era inoltre concesso di portare con sé la famiglia (con l’accordo del 1948 gli anni per ottenere il permesso di domicilio passarono infatti, rispetto al 1934, da cinque a dieci). L’accordo provocava notevoli problemi d’integrazione per i lavoratori e creava tensioni con il governo italiano, che aveva a più riprese domandato maggiori sicurezze per i suoi connazionali. Si giunse così a un secondo accordo, quello del 1964, volto alla promozione dell’integrazione, in particolare con la legge sul ricongiungimento familiare, che riduceva notevolmente gli anni di attesa per poter portare la propria famiglia con se in Svizzera.

In seguito a questi nuovi accordi si scatenarono però nella Confederazione, opinioni xenofobe, causate dalla paura dell’inforestierimento (Überfremdung in tedesco), che si temeva avrebbe preso piede a seguito dell’apertura all’integrazione degli stranieri promossa con l’accordo del 1964 dalle autorità elvetiche. Iniziative xenofobe si svilupparono soprattutto nella Svizzera tedesca. Nel 1965 ne venne lanciata una prima, dal partito democratico del Canton Zurigo, “contro la penetrazione straniera”, che venne poi ritirata qualche anno dopo. La più importante è però l’iniziativa Schwarzenbach (dal nome del suo promotore principale) lanciata da Azione nazionale[2] nel 1969 per la limitazione a un massimo del 10% della popolazione straniera su quella totale della Confederazione. Numerose furono le polemiche e le discussioni a proposito di questa iniziativa, che venne infine bocciata, anche se di misura, da una votazione popolare nel 1970.

Quest’atmosfera di tensione e di intolleranza non era certo positiva per i lavoratori italiani presenti in Svizzera e per le loro famiglie. Le difficoltà erano da un lato di tipo materiale (soprattutto economiche), ma anche psicologiche. Gli emigrati, inseriti in una realtà ostile, e molto diversa da quella cui erano abituati (moderna e industrializzata) sentivano la nostalgia dell’Italia, della loro famiglia e delle loro tradizioni, e desideravano, nella maggior parte dei casi, fare ritorno al più presto.

Queste difficoltà sono quelle che ritroviamo nelle nostre lettere, che sono state scritte proprio all’interno del contesto appena presentato.



[1] Jean-Charles Vegliante, Gli italiani all’estero 1861-1981. Dati introduttivi. Parigi: Publications de la Sorbonne Nouvelle, 1994, p.62.

[2] “Partito, conservatore, isolazionista e ideologicamente di estrema destra, che venne fondato nel 1961 dallo zurighese Fritz Meier, [nata proprio] quale reazione alla massiccia immigrazione di manodopera estera”. (fonte: DSS, “Azione nazionale”).

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L'Atis, Associazione ticinese insegnanti di storia, è nata il 2 ottobre 2003 con l'obiettivo di riunire i docenti di storia della Svizzera italiana di tutti i gradi di scuola.

L'Associazione promuove la riflessione e il dibattito sull'insegnamento della storia e sulle diverse correnti storiografiche.

Difende la professionalità dell'insegnante di storia nell'ambito di una scuola sempre più messa sotto pressione dalle esigenze di una società dominata dalle leggi del rendimento economico.

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