B. Maida, "Le leggi razziali: come raccontare i bambini ai bambini"
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L'articolo di Bruno Maida, "Le leggi razziali: come raccontare i bambini ai bambini " è apparso sulla rivista "La Ricerca" (N.15, Dicembre 2018), ed è anche consultabile online sul sito della rivista.
L'articolo fa parte del Dossier Didattico «L’infanzia al tempo delle leggi razziali. Persecuzione antisemita e fuga verso la libertà» realizzato in occasione della Giornata della memoria 2022.
LA RIVISTA "LA RICERCA"
«La ricerca» è un semestrale della casa editrice Loescher di informazione e approfondimento pensato principalmente per le e gli insegnanti di scuola secondaria e per l’università, ma che parla a chiunque sia interessato ad approfondire temi relativi all’istruzione e all’educazione in Italia e nel mondo.
L'atis ringrazia la casa editrice e mette a disposizione in allegato seguenti numeri della rivista:
- "La Ricerca", N.15, dicembre 2018 dal titolo "Che razza di scuola" in cui è presente il dossier didattico "La scuola deve parlare delle razze?".
- "La Ricerca", N.17, dicembre 2019 dal titolo "Meditate che questo è stato" in cui è presente il dossier didattico "L’insegnamento dell’Olocausto nel mondo".
L'AUTORE
Maida insegna Storia contemporanea presso il Dipartimento di Studi Umanistici all’Università di Torino. Tra le sue pubblicazioni recenti: “La Shoah dei bambini. La persecuzione dell’infanzia ebraica in Italia, 1938-1945” (Einaudi, Torino 2013) e “L’infanzia nelle guerre del Novecento” (Einaudi, Torino 2017).
L'atis mette a disposizione in allegato all'articolo le introduzioni ai due volumi.
L'ARTICOLO
A ottant’anni di distanza, quali sono le avvertenze da considerare nell’inserire in un percorso didattico il racconto delle leggi razziali e della persecuzione dell’infanzia nell’Italia fascista?
Il 1988 e il decennio che seguì l’anniversario del cinquantenario delle leggi razziali introdotte dal regime fascista hanno avuto un ruolo decisivo nella riflessione storiografica su quell’evento. Un profluvio, più o meno significativo, di interventi, articoli e saggi determinò una sorta di “scoperta” del razzismo, dell’antisemitismo e della sua applicazione in Italia tra le due guerre. Non che non ce ne fosse bisogno. La pubblicazione per Einaudi, nel 1961, della Storia degli ebrei sotto il fascismo di Renzo De Felice aveva rappresentato – per la sua ricchezza, per la novità, ma anche per l’autorevolezza che lo storico reatino avrebbe acquisito, proprio nel corso di quel decennio, grazie ai primi volumi della sua monumentale biografia di Mussolini – un ingombrante macigno per le ricerche successive e allo stesso tempo la base per un’interpretazione della persecuzione antiebraica, dalla legislazione alla Shoah, decisamente assolutoria per gli italiani.
Sebbene molte delle semplificazioni che ne derivarono non furono attribuibili a De Felice, il quadro complessivo che ne emergeva era quello di un razzismo di imitazione tedesca, di una persecuzione calata dall’alto senza che questa affondasse in profonde radici sociali e culturali, di una estraneità e persino di un’opposizione di gran parte della popolazione.
L’idea di un razzismo ma anche di una persecuzione minori, improvvisati, privi di ferocia e volontà partecipativa ha lasciato il posto, negli ultimi trent’anni, a posizioni sostanzialmente diverse se non radicalmente opposte, tuttavia non sempre accompagnate dalle necessarie sfumature.
Una ricca stagione di ricerche sull’argomento ha inoltre spinto molti testimoni di quelle vicende a raccontare il proprio passato, costringendo gli studiosi ad articolare meglio la nozione di persecuzione. Sono diventati temi del dibattito questioni come la responsabilità oggettiva della Repubblica sociale italiana e della popolazione, gli effetti della persecuzione su tutti coloro che non sono stati deportati ma che hanno subito ugualmente la legislazione antiebraica, l’eredità della normativa e della cultura antisemite perseguite dal fascismo, i segni lasciati nei bambini1 e nei giovani cresciuti nel cono d’ombra del regime e colpiti dall’impressionante schiaffo delle leggi razziali2.
Nel complesso, il 1938 ha assunto un valore periodizzante, certo correndo spesso il rischio di diventare «un gorgo luciferino, un vortice, un’ossessione monomaniacale, che tutto ingloba in se stessa e tutto pretende di giudicare, neutralizzando il continuum della storia»3.
A trent’anni di distanza non è la riflessione storiografica a dominare il discorso pubblico bensì, sembrerebbe, la capacità di quegli eventi di trasformarsi in una lezione per il presente. I rettori riuniti a Pisa lo scorso 20 settembre per chiedere scusa per l’espulsione di docenti e studenti dalle università hanno sottolineato la necessità di non essere mai ciecamente obbedienti4 (un invito che ricorda quanto sottolineò, molti anni fa, Bianca Guidetti Serra, in occasione della presentazione di un’importante testimonianza sulla deportazione politica femminile, e cioè che i giovani di allora avevano dovuto «imparare a disubbidire»5).
Ed è proprio il rettore dell’Università di Pisa Paolo Maria Mancarella, in chiusura della cerimonia, ad ammonire: «La moralità degli studenti e dei docenti che allora subirono l’ingiustizia ci guidi nel ricordo, nella riparazione, nella ricostruzione delle virtù civiche oggi necessarie alla resistenza contro tutte le discriminazioni, anche quelle del nostro tempo. Noi non dobbiamo obbedire mai più a ciechi intendimenti che calpestino la ragione e annullino la dignità dell’uomo». Il parallelismo tra le discriminazioni di allora e i diffusi razzismi e intolleranze di oggi costituiscono, a un tempo, un necessario alimento per una didattica che affondi le sue ragioni nel presente e un forte rischio di destoricizzazione degli eventi in una chiave di perenne attualizzazione del passato.
Viene dunque da domandarsi quali avvertenze sia utile mettere in campo nel momento in cui si ritenga di inserire in un percorso didattico il racconto delle leggi razziali e della persecuzione dell’infanzia nell’Italia fascista.
Non avendo alcuna ambizione di sostituirmi alla riflessione dei pedagogisti, che su questo terreno hanno scritto utilissime pagine6, dico appunto “avvertenze”, o forse sarebbe meglio dire – riprendendo qui il titolo di un breve, polemico quanto necessario intervento di Alberto Cavaglion7 – “piccoli consigli”.
Prima fra tutte che l’infanzia è un soggetto sociale, protagonista della storia e non passivo elemento di vicende osservate, agite e raccontate solo dagli adulti. Questo significa che i bambini – che non coincidono bensì si intrecciano con l’infanzia, essendo quest’ultima una costruzione culturale – sono stati vittime delle leggi razziali ma anche attori e spettatori. È evidente, per esempio, che i decreti di espulsione dalla scuola determinarono una ferita profonda nella vita e nell’identità dei bambini italiani ebrei (non “bambini ebrei italiani”, che contiene il rischio della tradizionale accusa antisemita della “doppia nazionalità”), ma per essi non furono delle norme a incidere e a invadere la loro esistenza. Fu al contrario un lento processo di separazione ed esclusione dalle pratiche, dalle relazioni, dai luoghi e dagli oggetti con i quali stavano determinando la propria relazione con il mondo e la propria formazione in quanto individui.
Le gerarchie, gli spazi e i tempi dell’infanzia hanno infatti una specificità che deve essere rivendicata e analizzata se si vuole provare a guardare il passato “con occhi di bambini”. Per farlo è necessario che ne emergano le voci, le memorie, i punti di vista, le fonti, le parole e i silenzi. È un protagonismo che parte dal presupposto che l’infanzia abbia delle proprie forme di racconto, all’interno delle quali si costruisce una grammatica, una sintassi, un vocabolario e dei contenuti che fondano e restituiscono una determinata interpretazione della realtà. Si pensi solo al peso e al ruolo che nella lettura del mondo da parte dell’infanzia hanno i giochi e i giocattoli. La separazione degli ebrei dagli altri bambini passò anche attraverso la difficoltà e spesso l’impossibilità di condividere lo spazio e le pratiche del gioco con i coetanei. Il parco vietato non per legge ma per ostilità o indifferenza degli altri si intrecciava con il restringersi dello spazio casalingo: il proprio, nel quale non era concesso accogliere altri bambini; quello dei coetanei che non era più permesso frequentare in quanto “ariani”. La casa, luogo di protezione, serenità e condivisione diventava in quel modo una gabbia dalla quale era difficile uscire e che, per così dire, restringeva gli spazi della fantasia e della conoscenza del mondo.
Porre al centro le leggi razziali significa anche ricordarsi che ogni bambino ha un nome. Si tratta, cioè, di restituire vita e corpo a ogni esperienza individuale ed evitare, al contrario, che le storie diventino icone, lontane quanto fossilizzate. Se partire dalle storie è un proficuo strumento per accompagnare i bambini nella conoscenza della storia, diventa necessario però impedire che esse si trasformino in una forma di identificazione assoluta, indipendentemente dal fatto che ciò accada nella dimensione delle vittime o degli eroi. «Perché gli oggetti del rispetto, come quelli della nausea, li si tiene lontani da sé»8. Il che, naturalmente, è ancora più significativo nel caso dei bambini deportati e quasi tutti uccisi nei campi di sterminio. Dare un nome non deve essere parte di una pedagogia del dolore o di una identificazione attraverso il trauma. Al contrario: costituisce un passaggio indispensabile per far sì che l’immagine dell’infanzia non sia quella oggi assai usata e abusata sulle prime pagine dei giornali, dove campeggia sempre una fotografia di un bambino sofferente o ucciso da una guerra, simbolo delle buone o delle cattive ragioni che la sostengono. Di quel bambino noi non sappiamo mai l’identità, la storia, la parola; non gli restituiamo quella forma di protagonismo sociale che si traduce nella condivisione e nella responsabilità di ognuno.
Il richiamo ad Auschwitz è importante anche sotto un altro profilo, perché ci ricorda che la persecuzione dei diritti è strettamente legata alla Shoah. Non si tratta, naturalmente, di sovrapporre o confondere i due processi (persecuzione dei diritti e persecuzione delle vite), quanto piuttosto di cogliere gli elementi di continuità, le premesse, le condizioni e le trasformazioni degli ebrei nei lunghi anni di applicazione delle leggi razziali.
L’indebolimento materiale e psicologico delle famiglie – che quando dovettero fuggire avevano conosciuto un progressivo asciugarsi di tutte le proprie risorse e un isolamento sempre più radicale – si declinava nell’infanzia come consapevolezza della debolezza dei padri e delle madri, come crisi dell’onnipotenza genitoriale, che nulla o ben poco avevano potuto e potevano fare per impedire o frenare il processo di espulsione, esclusione e separazione. Nello stesso tempo, si tenga sempre presente che le storie dei bambini perseguitati sono anche storie genitoriali: di padri e di madri che, malgrado tutto e con i tutti i limiti imposti, cercarono di garantire una normalità possibile, seppure costantemente dimezzata.
Le leggi razziali furono la prima ferita che coincise con il tempo della crescita e della formazione, accompagnate dalla paura, dall’incertezza, dalla scoperta improvvisa di una “colpa” – spesso coincidente con il marchio del proprio nome – di cui buona parte dei bambini italiani ebrei (figli di un lento e progressivo processo di laicizzazione del gruppo ebraico tra Ottocento e inizio Novecento) non aveva alcuna consapevolezza.
Non fu una condizione uniforme per tutti i bambini e non tutti vissero ogni tappa che condusse dalle leggi razziali al campo di sterminio. L’età stessa determinò esperienze in parte diverse, perché se una parte di quei bambini visse l’intero percorso di persecuzione, altri intercettarono solo parti di quel tempo e di quelle vicende, avendo memoria di alcune e di altre no. E, tuttavia, va ricordato che non fu affatto casuale che l’insieme dei provvedimenti razzisti avesse come momento iniziale la scuola: erano gli spazi e i soggetti naturali a partire dai quali costruire l’uomo nuovo fascista, mobilitando i giovani nella direzione di un nuovo modello educativo-culturale e, in parallelo, espellendo e separando tutti coloro che razzisticamente non potevano né dovevano far parte di quel progetto.
Solo tenendo conto di questi aspetti, della loro storicizzazione, della loro complessa declinazione sul piano didattico e dell’equilibrio – qui particolarmente delicato, ancor più quando la geografia degli eventi punta verso Auschwitz – tra conoscenza ed emozione, le leggi razziali possono diventare un utile strumento per riflettere sui percorsi del razzismo, sui meccanismi di esclusione e di separazione sociale, sulla costruzione e diffusione dell’indifferenza ma anche sulla rappresentazione dell’infanzia come vittima assoluta, che da un lato ne inibisce ogni protagonismo reale, dall’altro sposta l’attenzione sulla sua rappresentazione e sulla commozione che ogni essere umano prova di fronte alla sofferenza di un bambino. Ma quella che possiamo chiamare la “sindrome di Aylan”, ossia il rischio di un rapporto inversamente proporzionale tra emozione e responsabilità, è un problema etico e pedagogico con il quale dovremmo fare costantemente i conti come insegnanti e, a dirla tutta, come esseri umani.
LE NOTE
1. Su questo specifico tema che qui interessa particolarmente, cfr. B. Maida (a cura di), I bambini e le leggi razziali, Giuntina, Firenze 1999 e Id., La Shoah dei bambini. La persecuzione dell’infanzia ebraica in Italia, 1938-1945, Einaudi, Torino 2013.
2. Una efficace sintesi è in M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista: vicende, identità, persecuzione, Einaudi, Torino 2000, di cui si veda anche Mussolini contro gli ebrei. Cronaca dell’elaborazione delle leggi del 1938, Silvio Zamorani editore, Torino 1994.
3. A. Cavaglion, L’Italia della razza si è desta, in «Belgafor», a. LVII, n. 337, 31 gennaio 2002, p. 41.
4. V. Strambi, Pisa: le scuse dell’università a ottant’anni dalle leggi razziali, in «la Repubblica», 20 settembre 2018.
5. R. Rizzo, Carne da macellare nei “lager” nazisti, in «La Stampa», 22 marzo 1978. Il libro era L. Beccaria Rolfi e
A. M. Bruzzone, Le donne di Ravensbrück. Testimonianze di deportate politiche italiane, Einaudi, Torino 1978
6. Si veda, a titolo di esempio, E. Perillo, Insegnare e imparare la Shoah. Qualche riflessione, in D. Giulietti (a cura di), Eri sul treno per Auschwitz? Strumenti per raccontare la Shoah ai bambini, Iscop-Fulmino edizioni, Rimini 2013.
7. Piccoli consigli al ventenne che in Italia studia la Shoah, in «Belfagor», n. 326, 31 marzo 2000.
8. R. Klüger, Vivere ancora, Einaudi, Torino 1995, p. 107.